
Di fatto lo sfruttamento degli animali e la crudeltà nei loro confronti è colpa di chi non è vegano. La stessa cosa però non si può dire di chi è vegano ma non fa attivismo. È vero che se tutti i vegani facessero attivismo per gli animali se ne potrebbero salvare molti di più, ma questo non significa che chi non agisce è complice o colpevole.
Data la gravità delle ingiustizie nei confronti degli animali è comprensibile che venga questo pensiero, e che venga voglia di comunicarlo ai vegani che non fanno attivismo. In questi casi spesso si ha un alto grado di consapevolezza su ciò che subiscono gli animali, e si vive un forte coinvolgimento interiore in questa ingiustizia e nell’importanza di avvicinare sempre più persone al movimento vegan. Fra l’altro per essere messe in atto e avere successo, le iniziative hanno bisogno di un certo numero di partecipanti, che a volte risulta insufficiente.
In effetti rispetto a come vivono gli animali sfruttati, per noi è molto comodo essere nella posizione di poter scegliere se fare attivismo o meno. Noi umani possiamo fare scelte che incidono sulla vita degli animali molto più che sulla nostra. Invece loro possono solo subire la sorte a cui sono ingiustamente condannati. Se fossimo al loro posto vorremmo disperatamente che qualcuno ci salvasse subito, ed è anche vero che solo noi vegani possiamo portare avanti questo movimento.
Alcuni vegani sostengono con convinzione che una volta fatta la scelta vegan, fare attivismo diventi un obbligo morale, e questo pensiero lo manifestano a tutti, privatamente e pubblicamente, anche alle persone con cui interagiscono durante le iniziative.
Un simile comportamento però, molto probabilmente, fa un danno agli animali e lo fa prima di tutto perché riduce in modo significativo l’efficacia dell’outreach, non solo riducendo le possibilità di accrescere il numero di attivisti, ma anche dissuadendo le persone dall’idea di diventare vegan (comprese quelle che sul momento si dicono intenzionate a farlo).
Non è difficile immaginare il perché: se lasciamo intendere alle persone che una volta fatta questa scelta verranno giudicate colpevoli qualora non facessero anche attivismo per gli animali (oltre a doversi impegnare per cambiare mentalità e abitudini, e a dover affrontare le difficoltà pratiche e sociali del veganismo che le spaventano) creiamo un effetto dissuasivo dalla scelta di diventare vegan.
C’è persino chi afferma che la scelta vegan implichi fare attivismo, e che quindi chi non lo fa non possa dirsi realmente vegano. Diffondere questa idea non aiuta assolutamente la lotta per la liberazione animale. Se vogliamo diffondere il veganismo dobbiamo rendere la scelta vegan più facile, non più difficile. Dobbiamo diminuire il costo sociale dell’essere vegan, non aumentarlo.
Bisogna anche tenere conto del fatto che all’inizio la consapevolezza, l'interesse, e forse anche l’empatia delle persone verso gli animali non si sono sviluppate abbastanza. Quando si sceglie di diventare vegani si hanno ancora tanti condizionamenti di cui liberarsi, e le proprie conoscenze sull’argomento sono ancora molto scarse, nonché spesso errate. Non dobbiamo dimenticare che anche chi diventa vegan da un giorno all’altro ha fatto un lavoro su di sé per cambiare mentalità e abitudini, e spesso deve continuare a farlo per essere in grado di fare un buon attivismo.
Fare pressione sui vegani instillando l’idea che l’attivismo vada fatto comunque e “a tutti i costi” può portare in alcuni casi a metterlo in atto controvoglia, in modo avventato o senza la giusta disposizione mentale. Di conseguenza può essere fatto nei modi sbagliati, rischiando di diventare controproducente.
Senza dubbio a volte è meglio un attivismo fatto male piuttosto che niente, cioè ad esempio quando si è all’inizio ed è necessario acquisire familiarità con la tipologia di azione, ma nel complesso è importante che l’attivismo sia di qualità e che non risulti controproducente.
Dire alle persone che hanno il dovere di fare attivismo trasmette l’idea di un vincolo a cui sottostare e possibili recriminazioni in caso di un successivo abbandono delle iniziative. Questo è uno dei motivi per cui può avere l’effetto opposto a quello desiderato, scoraggiandole dal farlo. Non che l’attivismo vada visto come un passatempo o un modo per ottenere vantaggi personali, ma così siamo all’estremo opposto: giudicando e colpevolizzando i potenziali attivisti si mina il loro senso di autonomia decisionale e di autodeterminazione, elementi spesso essenziali per un attivismo efficace e sostenibile nel tempo.
Fra l’altro, se fosse vero che i vegani hanno l’obbligo morale di fare attivismo vegan, allora dovremmo anche pensare che la maggioranza dei non vegani, essendo contrari al maltrattamento di cani e gatti, e in favore dei diritti umani, abbiano il dovere di fare volontariato per contrastare il randagismo, e di prendere parte ad iniziative per i diritti umani.
E che dire dell’adozione? Dovremmo credere che i doveri morali si estendano anche alla scelta di adottare animali, rischiando fra l’altro di farlo senza esserne in grado e finendo magari per non accudirli nel modo corretto?
Se diffondiamo l’idea che tutte le volte che si diventa più consapevoli di un problema, o che si smette di alimentarlo, si acquisisce anche il dovere di impegnarsi attivamente per contrastarlo (seppure stabilendo delle priorità in base alla gravità e all’urgenza specifica) stiamo mettendo un freno al progresso morale perché stiamo creando un deterrente ad interessarsi della sofferenza altrui e delle ingiustizie, a diventarne più consapevoli e anche a smettere di esserne partecipi.
Così come non ha senso pensare che esista il dovere morale di adottare cani e gatti abbandonati, di fare volontariato nei rifugi, o di fare attivismo per i diritti umani, probabilmente non ha nemmeno senso pensare che fare attivismo vegan sia un obbligo morale.
Appare invece più sensato pensare che esista solo il dovere di non commettere e di non alimentare le ingiustizie, e che i doveri morali che riguardano l’agire attivamente si estendano solo a circostanze particolari, ad esempio quando ci siamo assunti consapevolmente degli impegni e delle responsabilità morali acquisendo dei doveri speciali, o al limite quando per caso ci si presenta l’opportunità di fare la differenza per qualcuno senza che questo richieda un grande impegno o un grande sacrificio.
Chi crede che abbiamo l’obbligo morale di fare volontariato e attivismo dovrebbe quantomeno riconoscere che esistono delle differenze tra la scelta di combattere attivamente le ingiustizie e quella di non esserne partecipe: dal punto di vista dei doveri morali (e quindi della colpa per la trasgressione di questi doveri) compiere o non compiere ingiustizie è senza dubbio una scelta diversa rispetto a quella tra combatterle attivamente o meno.
E se aiutare attivamente gli animali fosse un dovere, come stabilire il minimo dovuto? Le possibilità per quanto riguarda l’attivismo non sono uguali per tutti. Un ipotetico dovere morale in merito all’attivismo sembra estremamente difficile da identificare. Le opportunità e le difficoltà individuali non sono uguali per tutti. Non siamo nella testa degli altri. Spesso sappiamo ben poco della vita altrui e, diversamente dalla possibilità di diventare vegani, esistono condizioni che limitano di molto la possibilità di fare attivismo.
Mentre il veganismo si può identificare più facilmente come un dovere,
ed è uguale per tutti, un ipotetico dovere morale di fare attivismo non
si può stabilire in modo univoco: sarebbe diverso per ogni persona e
avrebbe tantissime variabili.
Oltretutto, esistono molti tipi diversi di attivismo per gli animali. Benché tutti servano, non tutti hanno la stessa efficacia e gli stessi rischi per chi li attua.
Diffondendo l’idea che aiutare attivamente gli animali sia un obbligo morale rischiamo anche di alimentare conflitti tra chi sostiene esista il dovere di occuparsi di una determinata forma di attivismo piuttosto che un’altra.
Diffondere idee di questo tipo probabilmente è più dannoso che utile al movimento vegan. Molto meglio esortare i vegani a fare attivismo puntando alla sua importanza per gli animali, e all’opportunità preziosa che abbiamo nel poterlo fare, senza colpevolizzare in qualche modo chi non lo fa.
Per esortare i vegani a fare attivismo non è necessario giudicare colpevole chi non lo fa, anzi. Anche per chi pensa che fare attivismo vegan non sia un obbligo morale esistono ottime ragioni per farlo. Molto meglio puntare su queste, valorizzando l’opportunità che abbiamo di contrastare un’ingiustizia così grande e ponendo l’attenzione sull’importanza che l’attivismo ha per gli animali, oltre che sulla sua necessità per portare avanti il movimento, senza descriverlo come un dovere morale e senza giudicare negativamente chi non lo fa.