Approfondimento di “Fattori e Dinamiche Dietro la Scelta Vegan”

Influenze culturali:
In ordine di importanza, il primo fattore che crea resistenza a diventare vegani è quasi certamente l’influenza culturale che le persone acquisiscono sul modo in cui vengono considerati gli animali e gli esseri umani. In particolare l’idea che la nostra specie sia al centro dell'universo e che gli umani siano gli unici individui titolari di diritti morali o quantomeno quelli la cui vita ha più importanza, che gli animali non-umani abbiano pochi o nessun diritto morale o valore etico, e che allevare e sfruttare certi animali e ucciderne altri per la nostra alimentazione o per altri scopi sia un comportamento giustificato (oltre ad eventuali pregiudizi verso i vegani ed il veganismo). Tutte cose che hanno a che fare con lo specismo e l'antropocentrismo.
Questa concezione degli animali come proprietà e risorse per gli esseri umani, soprattutto in ambito alimentare, esiste da millenni ma è stata rafforzata negli ultimi decenni attraverso il marketing e la propaganda da parte dell’industria zootecnica.
Quando diventiamo vegani facciamo i conti coi nostri pregiudizi e con queste ideologie che avevamo acquisito senza rendercene conto, solo perché imperanti nella società.
Spesso, una volta abbandonata questa mentalità, iniziamo a notare gli sbagli e le sottovalutazioni fatte fino a quel momento.
Il nostro pensiero e le nostre azioni si allineano all’idea già presente nella cultura della società secondo cui la diversità degli individui non giustifica una considerazione e un trattamento inferiori sotto l’aspetto etico, che la violenza gratuita o per futili motivi è moralmente sbagliata, e che avere il potere di fare qualcosa non significa averne il diritto.
Allo stesso modo diventiamo più in linea con la diffusa empatia verso gli animali, e con la frase altrettanto diffusa: “io amo gli animali”, superando la relativa ipocrisia.
Separazione e occultamento:
I prodotti di origine animale spesso non vengono percepiti per ciò che sono realmente. Sul piano mentale avviene una dissociazione tra i prodotti e gli animali da cui provengono. Tra l’altro, ad agevolare questo processo c’è il fatto che, molte volte, questi prodotti sono talmente tanto trasformati che non sono neanche più riconoscibili, ma anche quando lo sono, inconsciamente avviene questa separazione. Perciò spesso non ci si pensa e si ha la percezione che il prodotto e l’animale non c’entrino nulla l’uno con l’altro.
Inoltre, allevamenti e macelli sono nascosti alla vista delle persone.
Negli ultimi anni sono stati trasmessi su reti televisive nazionali alcuni estratti di investigazioni in questi luoghi, ma ciò che si vede di solito in tv non mostra chiaramente la brutalità verso gli animali. I macelli in particolare sono luoghi nascosti alla vista del pubblico.
Chiaramente la normalizzazione dello sfruttamento degli animali non è frutto della modernità. Anche in passato gli esseri umani allevavano, uccidevano e mangiavano gli animali, ed è probabile che in qualche modo lo abbiano sempre fatto, all’inizio attraverso la caccia e la pesca, e in seguito anche attraverso l’allevamento.
Fino ad un tempo relativamente recente, la maggior parte delle famiglie non si riforniva di prodotti nei supermercati e non ordinava nei ristoranti ma allevava e uccideva gli animali che mangiava. Esistevano i macelli pubblici dove ognuno portava i "propri" animali, oppure venivano uccisi direttamente nelle campagne. In alcuni luoghi, soprattutto nei paesi più poveri, questo avviene ancora oggi.
Tutto ciò sembra smentire l’idea che nascondere lo sfruttamento e l’uccisione degli animali contribuisca alle resistenze verso il veganismo, ma probabilmente la faccenda è più complessa di così.
In certi contesti sociali esistevano ed esistono ancora individui preposti alla loro uccisione entro un certo territorio. Altre volte, i bambini venivano e vengono spronati ad assistere e a partecipare alle uccisioni poiché considerato giusto e necessario. In certi casi, le persone si sono tramandate l’idea che esistono precisi tempi e modi per insegnare ad uccidere gli animali, proprio per gestire la diffusa avversione degli esseri umani a queste uccisioni.
Tale pratica si è riversata inevitabilmente sulla mente degli individui che trovavano espedienti mentali per sfuggire all’empatia e al senso di giustizia tradito. L’empatia verso gli animali, soprattutto quelli allevati per mangiarli, non andava alimentata ma repressa, mentre la loro uccisione non andava riconosciuta come qualcosa di crudele bensì come inevitabile e giustificabile. Così questa mentalità specista e antropocentrica è stata mantenuta nella società e tramandata alle nuove generazioni.
Normalità e familiarità:
I prodotti animali sono estremamente comuni sulle tavole, nelle pubblicità, sugli scaffali dei supermercati, nelle mense, nei ristoranti, come ingredienti nei prodotti e nelle ricette. Il loro consumo è estremamente comune.
Fin da piccole le persone vengono nutrite con prodotti animali, vedono la loro famiglia e i loro amici consumarli abitualmente senza alcun problema, imparano che siamo una specie onnivora e come altre specie mangiamo altri animali per vivere, e che tutti (o quasi) gli esseri umani mangiano prodotti animali, ovunque e da sempre. Vedono altre persone sui media consumarli normalmente e persino medici consigliarne il consumo.
Tutto questo contribuisce a far percepire i prodotti animali come qualcosa di totalmente accettabile e non eticamente problematico. Ciò che è considerato e trattato come normale viene automaticamente percepito come buono e inevitabile. Istintivamente si ha la percezione che non ci sia motivo di metterlo in dubbio e che non abbia senso vederlo come un problema.
Una delle resistenze alla scelta vegan più importanti è senza dubbio quella relativa all’influenza sociale.
Tendiamo ad imitare spontaneamente gli altri e ne veniamo influenzati anche senza rendercene conto.
Percepiamo come svantaggioso e sbagliato ciò che è minoritario e inusuale, e come buono e giusto ciò che è diffuso e comune.
Non a caso usiamo la parola ‘normale' non solo con il significato di ‘comune’ ma anche con quello di ‘giusto’ ed altre accezioni più o meno positive come: ‘sano’, ‘basilare’, ‘accettabile’, ‘comprensibile’ e ‘regolare’.
Siamo molto influenzati da ciò che percepiamo come normale. Quando un pensiero o un comportamento sono molto comuni, diffusi e popolari, o sembrano avere molti consensi, per la maggior parte degli esseri umani risultano più convincenti. Inoltre abbiamo la tendenza ad accettare in modo automatico ciò che ci è familiare e a diffidare da ciò che non conosciamo e che non ci è familiare.
Paura di svantaggi economici e sociali:
In modo più o meno consapevole non vogliamo essere esclusi o peggio osteggiati dagli altri ma desideriamo invece essere apprezzati, desiderati e ammirati. La maggior parte delle persone desidera l’ammirazione degli altri, il prestigio o quantomeno un buono status sociale e una vita agiata, mentre teme l’emarginazione e la cattiva reputazione.
All’idea di diventare vegane, un certo numero di persone temono di avere considerevoli svantaggi sociali, oltre che economici e/o pratici, di sentirsi sole, diverse e incomprese, e di ritrovarsi ad essere in qualche modo socialmente svantaggiate o addirittura in contrasto con familiari, amici, partner e con la società in generale. Così questa paura diventa una causa di resistenza al prendere seriamente in considerazione l’idea di diventare vegan. Tuttavia, una volta fatta la scelta vegan, in poco tempo queste paure si rivelano infondate o quantomeno esagerate.
Paura di danni alla propria salute:
Nonostante ormai si dica spesso che seguire un’alimentazione 100% vegetale è possibile e che può portare vantaggi considerevoli per la propria salute (anche da parte dei medici) molte persone hanno ancora il dubbio che possa essere pericoloso. Non sono poche le persone convinte che per diventare vegan debbano fare cose che prima non facevano come: andare dal medico, fare esami frequenti, programmare i menù settimanali e via dicendo.
Come sappiamo non è così.
Gusto e dipendenza mentale:
Esiste anche la componente del gusto per i prodotti di origine animale, ma più che il gusto a costituire una resistenza è il legame emotivo e la dipendenza mentale verso alcuni piatti e prodotti.
Alcuni sapori ci danno piacere anche perché li associamo a dei ricordi positivi, a qualcosa di familiare, conviviale, confortante e rassicurante.
Paura del senso di colpa:
Alcune persone intuiscono che si sentirebbero in colpa o in errore perché hanno negato tante volte la propria empatia, la propria attenzione e il proprio interesse verso lo sfruttamento degli animali e verso i loro diritti, oltre ad essere state a volte disoneste pur di non ammettere di essere in torto e sentirsi apposto con la coscienza.
Forse, certe persone si vergognerebbero di loro stesse. Questa intuizione, inconsciamente, diventa una resistenza ad approfondire o anche solo ad intrattenerne il pensiero, evitando possibili minacce all’autostima ed evitando di dover ammettere di aver sbagliato e di dover affrontare un cambio di mentalità e di abitudini.
A volte diventa un circolo vizioso: più si rifugge la propria intuizione di essere nel torto e che la scelta vegan sia una scelta giusta e doverosa, più si cercano scuse nel tentativo di giustificarsi. Più si intuisce che ci si sentirebbe in colpa ad ammettere di aver sbagliato, e più si cerca di allontanarsi dalla scelta vegan.
Ad aggravare questa situazione, in alcuni casi, c’è la paura di fallire nel proprio intento di diventare vegan e di minare così la propria autostima o sperimentare un senso di destabilizzazione morale.
Bisogno di positività e bias ottimistico:
Quando guardiamo il mondo dal punto di vista degli animali e ci immedesimiamo in loro, notiamo questo aspetto estremamente assurdo, crudele e ipocrita delle persone e della società, e ci si può sentire sovrastati e increduli davanti a tanta indifferenza, violenza gratuita e sofferenza.
A volte una componente importante delle resistenze a diventare vegan è la paura di scoprire una realtà orribile, assieme al bisogno di credere che il mondo non possa essere troppo brutto o ingiusto, che nulla accada senza una ragione o che la realtà protegga chi se lo merita, oltre alla sottovalutazione della privazione, della violenza e della sofferenza in generale (almeno finché non la si sperimenta personalmente).
Molti di noi vogliono fermamente credere che le persone e la società non siano troppo ingiuste, che ci sia sempre un lieto fine e che per ogni problema esista una soluzione.
Alcune persone temono di compromettere il loro senso di moralità e la loro serenità quando si estende il concetto di diritti fondamentali agli animali non umani. Questo avviene soprattutto perché esistono situazioni in cui è impossibile aiutarli o persino immaginare un mondo in cui possano essere liberi dalla violenza e dalla sofferenza estrema, in particolare nel caso degli animali selvatici che anche quando non sono vittime della crudeltà e della violenza umana, sono sistematicamente sottoposti a gravi sofferenze e alla morte precoce, e appare del tutto impossibile proteggerli da questa sorte.
La paura di destabilizzare il proprio quadro morale di riferimento e di compromettere una propria visione ottimistica della realtà costituiscono una delle possibili resistenze alla scelta vegan.
Fallacie logiche e credenze svalutanti:
Alcune persone credono che la moralità corrisponda alla legalità.
Altre sostengono teorie che pur non essendo incompatibili col veganismo in senso assoluto, possono contribuire significativamente alle resistenze verso la scelta vegan. Molte di queste credenze riguardano solo una piccola minoranza di persone, ma nell’insieme potrebbero essere comunque fattori considerevoli anche da un punto di vista demografico.
Tra le più comuni: l’idea che l’etica sia soggettiva o relativa, o che nulla possa essere descritto come oggettivamente giusto, sbagliato, buono o cattivo; l’idea che tutti gli eventi, inclusi i comportamenti e le scelte delle persone, siano predeterminati e che pertanto non esista il libero arbitrio, idea da cui può derivare una deresponsabilizzazione perché, in base a questa, agli esseri umani non possono essere attribuiti meriti e colpe per il loro comportamento; certe interpretazioni delle religioni; una certa idea di karma e di reincarnazione secondo cui le vittime di sofferenza e di violenza stanno scontando le conseguenze di sbagli commessi in vite passate, o hanno bisogno di essere vittima di violenza e sofferenza in questa vita per evolvere spiritualmente e per proseguire in un percorso spirituale.
Esistono anche diverse fallacie logiche che giocano lo stesso ruolo nelle resistenze alla scelta vegan. Le più comuni sono:
- “La carovana”:
alcune persone hanno una fede irrazionale nella società e sono convinte che la popolarità di un’idea indichi la correttezza di quell’idea, perché pensano che molte menti non possano che arrivare ad una valutazione migliore rispetto a poche menti. Purtroppo non è sempre così e ne abbiamo molte evidenze nelle società del presente e del passato.
- “Appello all’autorità”:
alcune persone credono che siccome istituzioni, autorità e persone ritenute autorevoli giustificano lo sfruttamento e l'uccisione degli animali per mangiarli o per altri scopi, allora questo debba essere per forza vero.
- “Appello alla natura”:
diverse persone credono che ciò che è “naturale” sia necessariamente valido, giustificato, inevitabile, buono o ideale, e che siccome gli animali in natura mangiano altri animali allora questo sia naturale e di conseguenza sia anche giusto, ignorando però tante altre cose che gli animali fanno in natura, come stuprare, rubare e uccidere altri membri della propria specie. In realtà, non solo l’idea di naturalità applicata allo sfruttamento degli animali è quantomeno discutibile, ma non c’è ragione di considerare come necessariamente buono o giusto ciò che è naturale.
- “Bianco o nero” (e “ricorso alla purezza”):
alcune persone pensano che siccome non è possibile essere dei “vegani perfetti”, essendo inevitabile fare del male a degli animali per vivere (ad esempio quelli che vengono involontariamente uccisi nelle coltivazioni) allora nessuno possa definirsi vegano e non abbia senso essere vegani.
- “Terreno di mezzo”:
diverse persone credono che la verità stia sempre nel mezzo, cioè a metà tra due estremi. Di conseguenza il veganismo viene visto come troppo estremo per essere la scelta giusta. La scelta migliore viene ritenuta ad esempio quella di essere vegetariani o flexitariani, di essere “vegan in casa”, di “non mangiare troppa carne” o di “evitare di mangiare solo alcune specie”, o di mangiare “solo le uova del contadino”, oppure “solo prodotti biologici e da allevamenti senza gabbie”. Tutte vie di mezzo inaccettabili quando non mere illusioni (come nella maggior parte dei casi).
Egocentrismo e Superficialità:
Possono essere causa di resistenza alla scelta vegan anche la semplice convinzione di essere più importanti degli altri, l’abitudine a pensarsi al centro del mondo, e il mancato riconoscimento di quanto per gli altri le proprie esperienze e la propria vita siano importanti (come lo sono per se stessi).
In ordine di importanza, il primo fattore che crea resistenza a diventare vegani è quasi certamente l’influenza culturale che le persone acquisiscono sul modo in cui vengono considerati gli animali e gli esseri umani. In particolare l’idea che la nostra specie sia al centro dell'universo e che gli umani siano gli unici individui titolari di diritti morali o quantomeno quelli la cui vita ha più importanza, che gli animali non-umani abbiano pochi o nessun diritto morale o valore etico, e che allevare e sfruttare certi animali e ucciderne altri per la nostra alimentazione o per altri scopi sia un comportamento giustificato (oltre ad eventuali pregiudizi verso i vegani ed il veganismo). Tutte cose che hanno a che fare con lo specismo e l'antropocentrismo.
Questa concezione degli animali come proprietà e risorse per gli esseri umani, soprattutto in ambito alimentare, esiste da millenni ma è stata rafforzata negli ultimi decenni attraverso il marketing e la propaganda da parte dell’industria zootecnica.
Quando diventiamo vegani facciamo i conti coi nostri pregiudizi e con queste ideologie che avevamo acquisito senza rendercene conto, solo perché imperanti nella società.
Spesso, una volta abbandonata questa mentalità, iniziamo a notare gli sbagli e le sottovalutazioni fatte fino a quel momento.
Il nostro pensiero e le nostre azioni si allineano all’idea già presente nella cultura della società secondo cui la diversità degli individui non giustifica una considerazione e un trattamento inferiori sotto l’aspetto etico, che la violenza gratuita o per futili motivi è moralmente sbagliata, e che avere il potere di fare qualcosa non significa averne il diritto.
Allo stesso modo diventiamo più in linea con la diffusa empatia verso gli animali, e con la frase altrettanto diffusa: “io amo gli animali”, superando la relativa ipocrisia.
Separazione e occultamento:
I prodotti di origine animale spesso non vengono percepiti per ciò che sono realmente. Sul piano mentale avviene una dissociazione tra i prodotti e gli animali da cui provengono. Tra l’altro, ad agevolare questo processo c’è il fatto che, molte volte, questi prodotti sono talmente tanto trasformati che non sono neanche più riconoscibili, ma anche quando lo sono, inconsciamente avviene questa separazione. Perciò spesso non ci si pensa e si ha la percezione che il prodotto e l’animale non c’entrino nulla l’uno con l’altro.
Inoltre, allevamenti e macelli sono nascosti alla vista delle persone.
Negli ultimi anni sono stati trasmessi su reti televisive nazionali alcuni estratti di investigazioni in questi luoghi, ma ciò che si vede di solito in tv non mostra chiaramente la brutalità verso gli animali. I macelli in particolare sono luoghi nascosti alla vista del pubblico.
Chiaramente la normalizzazione dello sfruttamento degli animali non è frutto della modernità. Anche in passato gli esseri umani allevavano, uccidevano e mangiavano gli animali, ed è probabile che in qualche modo lo abbiano sempre fatto, all’inizio attraverso la caccia e la pesca, e in seguito anche attraverso l’allevamento.
Fino ad un tempo relativamente recente, la maggior parte delle famiglie non si riforniva di prodotti nei supermercati e non ordinava nei ristoranti ma allevava e uccideva gli animali che mangiava. Esistevano i macelli pubblici dove ognuno portava i "propri" animali, oppure venivano uccisi direttamente nelle campagne. In alcuni luoghi, soprattutto nei paesi più poveri, questo avviene ancora oggi.
Tutto ciò sembra smentire l’idea che nascondere lo sfruttamento e l’uccisione degli animali contribuisca alle resistenze verso il veganismo, ma probabilmente la faccenda è più complessa di così.
In certi contesti sociali esistevano ed esistono ancora individui preposti alla loro uccisione entro un certo territorio. Altre volte, i bambini venivano e vengono spronati ad assistere e a partecipare alle uccisioni poiché considerato giusto e necessario. In certi casi, le persone si sono tramandate l’idea che esistono precisi tempi e modi per insegnare ad uccidere gli animali, proprio per gestire la diffusa avversione degli esseri umani a queste uccisioni.
Tale pratica si è riversata inevitabilmente sulla mente degli individui che trovavano espedienti mentali per sfuggire all’empatia e al senso di giustizia tradito. L’empatia verso gli animali, soprattutto quelli allevati per mangiarli, non andava alimentata ma repressa, mentre la loro uccisione non andava riconosciuta come qualcosa di crudele bensì come inevitabile e giustificabile. Così questa mentalità specista e antropocentrica è stata mantenuta nella società e tramandata alle nuove generazioni.
Normalità e familiarità:
I prodotti animali sono estremamente comuni sulle tavole, nelle pubblicità, sugli scaffali dei supermercati, nelle mense, nei ristoranti, come ingredienti nei prodotti e nelle ricette. Il loro consumo è estremamente comune.
Fin da piccole le persone vengono nutrite con prodotti animali, vedono la loro famiglia e i loro amici consumarli abitualmente senza alcun problema, imparano che siamo una specie onnivora e come altre specie mangiamo altri animali per vivere, e che tutti (o quasi) gli esseri umani mangiano prodotti animali, ovunque e da sempre. Vedono altre persone sui media consumarli normalmente e persino medici consigliarne il consumo.
Tutto questo contribuisce a far percepire i prodotti animali come qualcosa di totalmente accettabile e non eticamente problematico. Ciò che è considerato e trattato come normale viene automaticamente percepito come buono e inevitabile. Istintivamente si ha la percezione che non ci sia motivo di metterlo in dubbio e che non abbia senso vederlo come un problema.
Una delle resistenze alla scelta vegan più importanti è senza dubbio quella relativa all’influenza sociale.
Tendiamo ad imitare spontaneamente gli altri e ne veniamo influenzati anche senza rendercene conto.
Percepiamo come svantaggioso e sbagliato ciò che è minoritario e inusuale, e come buono e giusto ciò che è diffuso e comune.
Non a caso usiamo la parola ‘normale' non solo con il significato di ‘comune’ ma anche con quello di ‘giusto’ ed altre accezioni più o meno positive come: ‘sano’, ‘basilare’, ‘accettabile’, ‘comprensibile’ e ‘regolare’.
Siamo molto influenzati da ciò che percepiamo come normale. Quando un pensiero o un comportamento sono molto comuni, diffusi e popolari, o sembrano avere molti consensi, per la maggior parte degli esseri umani risultano più convincenti. Inoltre abbiamo la tendenza ad accettare in modo automatico ciò che ci è familiare e a diffidare da ciò che non conosciamo e che non ci è familiare.
Paura di svantaggi economici e sociali:
In modo più o meno consapevole non vogliamo essere esclusi o peggio osteggiati dagli altri ma desideriamo invece essere apprezzati, desiderati e ammirati. La maggior parte delle persone desidera l’ammirazione degli altri, il prestigio o quantomeno un buono status sociale e una vita agiata, mentre teme l’emarginazione e la cattiva reputazione.
All’idea di diventare vegane, un certo numero di persone temono di avere considerevoli svantaggi sociali, oltre che economici e/o pratici, di sentirsi sole, diverse e incomprese, e di ritrovarsi ad essere in qualche modo socialmente svantaggiate o addirittura in contrasto con familiari, amici, partner e con la società in generale. Così questa paura diventa una causa di resistenza al prendere seriamente in considerazione l’idea di diventare vegan. Tuttavia, una volta fatta la scelta vegan, in poco tempo queste paure si rivelano infondate o quantomeno esagerate.
Paura di danni alla propria salute:
Nonostante ormai si dica spesso che seguire un’alimentazione 100% vegetale è possibile e che può portare vantaggi considerevoli per la propria salute (anche da parte dei medici) molte persone hanno ancora il dubbio che possa essere pericoloso. Non sono poche le persone convinte che per diventare vegan debbano fare cose che prima non facevano come: andare dal medico, fare esami frequenti, programmare i menù settimanali e via dicendo.
Come sappiamo non è così.
Gusto e dipendenza mentale:
Esiste anche la componente del gusto per i prodotti di origine animale, ma più che il gusto a costituire una resistenza è il legame emotivo e la dipendenza mentale verso alcuni piatti e prodotti.
Alcuni sapori ci danno piacere anche perché li associamo a dei ricordi positivi, a qualcosa di familiare, conviviale, confortante e rassicurante.
Paura del senso di colpa:
Alcune persone intuiscono che si sentirebbero in colpa o in errore perché hanno negato tante volte la propria empatia, la propria attenzione e il proprio interesse verso lo sfruttamento degli animali e verso i loro diritti, oltre ad essere state a volte disoneste pur di non ammettere di essere in torto e sentirsi apposto con la coscienza.
Forse, certe persone si vergognerebbero di loro stesse. Questa intuizione, inconsciamente, diventa una resistenza ad approfondire o anche solo ad intrattenerne il pensiero, evitando possibili minacce all’autostima ed evitando di dover ammettere di aver sbagliato e di dover affrontare un cambio di mentalità e di abitudini.
A volte diventa un circolo vizioso: più si rifugge la propria intuizione di essere nel torto e che la scelta vegan sia una scelta giusta e doverosa, più si cercano scuse nel tentativo di giustificarsi. Più si intuisce che ci si sentirebbe in colpa ad ammettere di aver sbagliato, e più si cerca di allontanarsi dalla scelta vegan.
Ad aggravare questa situazione, in alcuni casi, c’è la paura di fallire nel proprio intento di diventare vegan e di minare così la propria autostima o sperimentare un senso di destabilizzazione morale.
Bisogno di positività e bias ottimistico:
Quando guardiamo il mondo dal punto di vista degli animali e ci immedesimiamo in loro, notiamo questo aspetto estremamente assurdo, crudele e ipocrita delle persone e della società, e ci si può sentire sovrastati e increduli davanti a tanta indifferenza, violenza gratuita e sofferenza.
A volte una componente importante delle resistenze a diventare vegan è la paura di scoprire una realtà orribile, assieme al bisogno di credere che il mondo non possa essere troppo brutto o ingiusto, che nulla accada senza una ragione o che la realtà protegga chi se lo merita, oltre alla sottovalutazione della privazione, della violenza e della sofferenza in generale (almeno finché non la si sperimenta personalmente).
Molti di noi vogliono fermamente credere che le persone e la società non siano troppo ingiuste, che ci sia sempre un lieto fine e che per ogni problema esista una soluzione.
Alcune persone temono di compromettere il loro senso di moralità e la loro serenità quando si estende il concetto di diritti fondamentali agli animali non umani. Questo avviene soprattutto perché esistono situazioni in cui è impossibile aiutarli o persino immaginare un mondo in cui possano essere liberi dalla violenza e dalla sofferenza estrema, in particolare nel caso degli animali selvatici che anche quando non sono vittime della crudeltà e della violenza umana, sono sistematicamente sottoposti a gravi sofferenze e alla morte precoce, e appare del tutto impossibile proteggerli da questa sorte.
La paura di destabilizzare il proprio quadro morale di riferimento e di compromettere una propria visione ottimistica della realtà costituiscono una delle possibili resistenze alla scelta vegan.
Fallacie logiche e credenze svalutanti:
Alcune persone credono che la moralità corrisponda alla legalità.
Altre sostengono teorie che pur non essendo incompatibili col veganismo in senso assoluto, possono contribuire significativamente alle resistenze verso la scelta vegan. Molte di queste credenze riguardano solo una piccola minoranza di persone, ma nell’insieme potrebbero essere comunque fattori considerevoli anche da un punto di vista demografico.
Tra le più comuni: l’idea che l’etica sia soggettiva o relativa, o che nulla possa essere descritto come oggettivamente giusto, sbagliato, buono o cattivo; l’idea che tutti gli eventi, inclusi i comportamenti e le scelte delle persone, siano predeterminati e che pertanto non esista il libero arbitrio, idea da cui può derivare una deresponsabilizzazione perché, in base a questa, agli esseri umani non possono essere attribuiti meriti e colpe per il loro comportamento; certe interpretazioni delle religioni; una certa idea di karma e di reincarnazione secondo cui le vittime di sofferenza e di violenza stanno scontando le conseguenze di sbagli commessi in vite passate, o hanno bisogno di essere vittima di violenza e sofferenza in questa vita per evolvere spiritualmente e per proseguire in un percorso spirituale.
Esistono anche diverse fallacie logiche che giocano lo stesso ruolo nelle resistenze alla scelta vegan. Le più comuni sono:
- “La carovana”:
alcune persone hanno una fede irrazionale nella società e sono convinte che la popolarità di un’idea indichi la correttezza di quell’idea, perché pensano che molte menti non possano che arrivare ad una valutazione migliore rispetto a poche menti. Purtroppo non è sempre così e ne abbiamo molte evidenze nelle società del presente e del passato.
- “Appello all’autorità”:
alcune persone credono che siccome istituzioni, autorità e persone ritenute autorevoli giustificano lo sfruttamento e l'uccisione degli animali per mangiarli o per altri scopi, allora questo debba essere per forza vero.
- “Appello alla natura”:
diverse persone credono che ciò che è “naturale” sia necessariamente valido, giustificato, inevitabile, buono o ideale, e che siccome gli animali in natura mangiano altri animali allora questo sia naturale e di conseguenza sia anche giusto, ignorando però tante altre cose che gli animali fanno in natura, come stuprare, rubare e uccidere altri membri della propria specie. In realtà, non solo l’idea di naturalità applicata allo sfruttamento degli animali è quantomeno discutibile, ma non c’è ragione di considerare come necessariamente buono o giusto ciò che è naturale.
- “Bianco o nero” (e “ricorso alla purezza”):
alcune persone pensano che siccome non è possibile essere dei “vegani perfetti”, essendo inevitabile fare del male a degli animali per vivere (ad esempio quelli che vengono involontariamente uccisi nelle coltivazioni) allora nessuno possa definirsi vegano e non abbia senso essere vegani.
- “Terreno di mezzo”:
diverse persone credono che la verità stia sempre nel mezzo, cioè a metà tra due estremi. Di conseguenza il veganismo viene visto come troppo estremo per essere la scelta giusta. La scelta migliore viene ritenuta ad esempio quella di essere vegetariani o flexitariani, di essere “vegan in casa”, di “non mangiare troppa carne” o di “evitare di mangiare solo alcune specie”, o di mangiare “solo le uova del contadino”, oppure “solo prodotti biologici e da allevamenti senza gabbie”. Tutte vie di mezzo inaccettabili quando non mere illusioni (come nella maggior parte dei casi).
Egocentrismo e Superficialità:
Possono essere causa di resistenza alla scelta vegan anche la semplice convinzione di essere più importanti degli altri, l’abitudine a pensarsi al centro del mondo, e il mancato riconoscimento di quanto per gli altri le proprie esperienze e la propria vita siano importanti (come lo sono per se stessi).
L’egocentrismo agevola in modo particolare l’inconsapevolezza sulle ingiustizie verso gli animali a causa della mancanza di motivazione e di interesse per i diritti e per l’esperienza altrui che produce, nonché a causa della conseguente abitudine a non riflettere seriamente su temi etici come questo. Con un forte grado di egocentrismo non servono scuse per sentirsi a posto con la coscienza perché la consapevolezza morale è già sufficientemente annebbiata dal proprio ego. Così si rafforza la tendenza a condividere solo le posizioni morali già ampiamente accettate dalla società (a prescindere dalla loro correttezza) in modo opportunistico e superficiale.
Egoismo e difficoltà nei ragionamenti etici di base:
Capire che l’esistenza, l’esperienza e gli interessi degli altri valgono tanto quanto i propri, e che razionalmente devono essere considerati importanti quanto i propri, per molte persone non è immediato, e in più appare sconveniente.
Quando si pongono la domanda: “cosa c’è di razionale nel dare importanza alla vita e alle necessità degli altri, e non solo alle mie?” molti non sanno effettivamente darsi una risposta.
Sulla base di questo, si arriva a pensare che dare importanza esclusivamente ai propri interessi sia l’unica considerazione razionale possibile, e che pertanto, fare scelte in base ad essa sia sempre giustificato.
L’idea che la sopravvivenza e la qualità della vita di qualcuno siano ugualmente importanti a prescindere dal fatto che si tratti della propria vita o di quella altrui (semplicemente perché l’altrui vita è importante per gli altri come la propria lo è per se stessi) viene vista come un’idea irrazionale.
Di conseguenza, sacrificare i propri interessi per rispettare quelli degli altri non è mai visto come moralmente doveroso, nemmeno quando per soddisfare un proprio interesse superfluo ed effimero, uno o più individui innocenti vengono sottoposti a gravi sofferenze e morte.
Esistono casi in cui mettere i propri interessi davanti a quelli degli altri è razionale e giusto ma certamente non per quanto riguarda l’idea di poter possedere ed usare qualcuno a proprio piacimento solo perché più debole e di specie diversa dalla propria.
Per molte persone, per arrivare a capire l’ingiustizia di un comportamento simile non basta cercare di immedesimarsi nelle vittime e pensare: “se ci fossi io al suo posto cosa proverei, cosa penserei, cosa vorrei?” perché alla fine la conclusione a cui arrivano è: “l’importante è che non ci sia io al suo posto”.
Questo tipo di mentalità dà spazio a visioni nichiliste, soggettiviste, relativiste ed egoiste dell’etica e della moralità. Così la moralità viene vista come un mero strumento culturale che rende possibile l’esistenza di una società e che ha senso e valore solo perché permette di ottenere dei vantaggi personali. Ovvero un’idea del tipo: “io rispetto gli altri fintanto e solo perché mi conviene che ci sia questo stato di cose dove anche gli altri mi rispettano e dove posso trarre vantaggio dal collaborare con loro in qualche modo.”.
In parte si tratta di una razionalizzazione, cioè di voler attribuire una connotazione razionale a pensieri basati su pulsioni che in realtà razionali non sono, e che hanno invece a che fare con il desiderio di non sforzarsi di ragionare, con il desiderio di vivere spensierati, senza difficoltà o sensi di colpa, senza scrupoli e senza pensieri sconfortanti. Ma in parte potrebbe trattarsi di un effettivo mancato sviluppo logico di certi ragionamenti etici di base.
Questa difficoltà nei ragionamenti etici può avere più cause di natura differente.
Potrebbe essere la difficoltà ad identificare e a riconoscere la fonte del valore etico e dei diritti morali fondamentali (la coscienza e la senzienza), o la difficoltà a fare un’astrazione di questi concetti (cioè a pensare a questi concetti in modo astratto e generale) e a fare ragionamenti etici a riguardo (nonostante l’astrazione e i ragionamenti vengano fatti su tantissimi temi e vengano considerati perfettamente logici e aderenti alla realtà, tranne appunto quando si tratta di etica); tutto ciò può essere causato anche da difficoltà innate nel tipo di ragionamento che ha a che fare con l’etica (difficoltà che abbiamo praticamente tutti, chi più chi meno), ma anche da un mancato allenamento, e/o dall’assenza di motivazione (come può essere ad esempio uno stimolo sociale al ragionamento etico).
In realtà quasi nessuno fa molti ragionamenti deliberati sull’etica. Chi raggiunge certe consapevolezze morali lo fa più che altro in modo intuitivo, non tanto analizzando i concetti, o ponendosi interrogativi, o sforzandosi di riflettere, quanto seguendo un senso di giustizia. Così di solito chi non ha quell’intuito semplicemente non arriva a certe consapevolezze etiche, benché elementari e apparentemente ovvie.
Il mero fatto che ognuno sente solo attraverso il proprio corpo e non attraverso quello degli altri in un certo senso predispone tutti per natura ad essere fortemente coinvolti dai propri interessi e ad ignorare quelli degli altri, o comunque a mettere i propri interessi davanti a quelli altrui.
Oltre a questo ovvio dato di fatto, le diffuse difficoltà sui ragionamenti etici più elementari (evidentemente sproporzionate in senso negativo rispetto alle abilità logico-razionali messe in atto in altri campi) potrebbero essere dovute anche a questioni evolutive: essere così tanto focalizzati e assorbiti dai propri bisogni disinteressandosi degli altri, è un vantaggio evolutivo che comunque non è incompatibile con l’empatia, con la socialità e con i vantaggi evolutivi che derivano dalla cooperazione.
Questo spiegherebbe l’esistenza di una ipotetica diffusa difficoltà innata nel raggiungimento e nel mantenimento delle consapevolezze morali, un ostacolo che può comunque essere superato attraverso il ragionamento e la cultura.
Crudeltà:
Forse, ancora prima di tutte queste influenze e di questi condizionamenti, il fattore di fondo che crea una resistenza a diventare vegan è la crudeltà, intesa come la tendenza a scegliere ciò che appare come più conveniente per se stessi a dispetto di ciò che si sa essere giusto, anche quando si tratta di causare consapevolmente mali molto grandi ad individui innocenti pur di ottenere benefici anche molto piccoli o incerti.
Capire che l’esistenza, l’esperienza e gli interessi degli altri valgono tanto quanto i propri, e che razionalmente devono essere considerati importanti quanto i propri, per molte persone non è immediato, e in più appare sconveniente.
Quando si pongono la domanda: “cosa c’è di razionale nel dare importanza alla vita e alle necessità degli altri, e non solo alle mie?” molti non sanno effettivamente darsi una risposta.
Sulla base di questo, si arriva a pensare che dare importanza esclusivamente ai propri interessi sia l’unica considerazione razionale possibile, e che pertanto, fare scelte in base ad essa sia sempre giustificato.
L’idea che la sopravvivenza e la qualità della vita di qualcuno siano ugualmente importanti a prescindere dal fatto che si tratti della propria vita o di quella altrui (semplicemente perché l’altrui vita è importante per gli altri come la propria lo è per se stessi) viene vista come un’idea irrazionale.
Di conseguenza, sacrificare i propri interessi per rispettare quelli degli altri non è mai visto come moralmente doveroso, nemmeno quando per soddisfare un proprio interesse superfluo ed effimero, uno o più individui innocenti vengono sottoposti a gravi sofferenze e morte.
Esistono casi in cui mettere i propri interessi davanti a quelli degli altri è razionale e giusto ma certamente non per quanto riguarda l’idea di poter possedere ed usare qualcuno a proprio piacimento solo perché più debole e di specie diversa dalla propria.
Per molte persone, per arrivare a capire l’ingiustizia di un comportamento simile non basta cercare di immedesimarsi nelle vittime e pensare: “se ci fossi io al suo posto cosa proverei, cosa penserei, cosa vorrei?” perché alla fine la conclusione a cui arrivano è: “l’importante è che non ci sia io al suo posto”.
Questo tipo di mentalità dà spazio a visioni nichiliste, soggettiviste, relativiste ed egoiste dell’etica e della moralità. Così la moralità viene vista come un mero strumento culturale che rende possibile l’esistenza di una società e che ha senso e valore solo perché permette di ottenere dei vantaggi personali. Ovvero un’idea del tipo: “io rispetto gli altri fintanto e solo perché mi conviene che ci sia questo stato di cose dove anche gli altri mi rispettano e dove posso trarre vantaggio dal collaborare con loro in qualche modo.”.
In parte si tratta di una razionalizzazione, cioè di voler attribuire una connotazione razionale a pensieri basati su pulsioni che in realtà razionali non sono, e che hanno invece a che fare con il desiderio di non sforzarsi di ragionare, con il desiderio di vivere spensierati, senza difficoltà o sensi di colpa, senza scrupoli e senza pensieri sconfortanti. Ma in parte potrebbe trattarsi di un effettivo mancato sviluppo logico di certi ragionamenti etici di base.
Questa difficoltà nei ragionamenti etici può avere più cause di natura differente.
Potrebbe essere la difficoltà ad identificare e a riconoscere la fonte del valore etico e dei diritti morali fondamentali (la coscienza e la senzienza), o la difficoltà a fare un’astrazione di questi concetti (cioè a pensare a questi concetti in modo astratto e generale) e a fare ragionamenti etici a riguardo (nonostante l’astrazione e i ragionamenti vengano fatti su tantissimi temi e vengano considerati perfettamente logici e aderenti alla realtà, tranne appunto quando si tratta di etica); tutto ciò può essere causato anche da difficoltà innate nel tipo di ragionamento che ha a che fare con l’etica (difficoltà che abbiamo praticamente tutti, chi più chi meno), ma anche da un mancato allenamento, e/o dall’assenza di motivazione (come può essere ad esempio uno stimolo sociale al ragionamento etico).
In realtà quasi nessuno fa molti ragionamenti deliberati sull’etica. Chi raggiunge certe consapevolezze morali lo fa più che altro in modo intuitivo, non tanto analizzando i concetti, o ponendosi interrogativi, o sforzandosi di riflettere, quanto seguendo un senso di giustizia. Così di solito chi non ha quell’intuito semplicemente non arriva a certe consapevolezze etiche, benché elementari e apparentemente ovvie.
Il mero fatto che ognuno sente solo attraverso il proprio corpo e non attraverso quello degli altri in un certo senso predispone tutti per natura ad essere fortemente coinvolti dai propri interessi e ad ignorare quelli degli altri, o comunque a mettere i propri interessi davanti a quelli altrui.
Oltre a questo ovvio dato di fatto, le diffuse difficoltà sui ragionamenti etici più elementari (evidentemente sproporzionate in senso negativo rispetto alle abilità logico-razionali messe in atto in altri campi) potrebbero essere dovute anche a questioni evolutive: essere così tanto focalizzati e assorbiti dai propri bisogni disinteressandosi degli altri, è un vantaggio evolutivo che comunque non è incompatibile con l’empatia, con la socialità e con i vantaggi evolutivi che derivano dalla cooperazione.
Questo spiegherebbe l’esistenza di una ipotetica diffusa difficoltà innata nel raggiungimento e nel mantenimento delle consapevolezze morali, un ostacolo che può comunque essere superato attraverso il ragionamento e la cultura.
Crudeltà:
Forse, ancora prima di tutte queste influenze e di questi condizionamenti, il fattore di fondo che crea una resistenza a diventare vegan è la crudeltà, intesa come la tendenza a scegliere ciò che appare come più conveniente per se stessi a dispetto di ciò che si sa essere giusto, anche quando si tratta di causare consapevolmente mali molto grandi ad individui innocenti pur di ottenere benefici anche molto piccoli o incerti.
A volte si ignorano le ingiustizie verso gli animali semplicemente perché ignorarle è più facile. Altre volte, ignorare la verità su questo tema appare più conveniente, soprattutto quando si hanno delle paure legate ad una percezione distorta del veganismo.
Questo non significa che la mentalità che normalizza e giustifica lo sfruttamento degli animali e la crudeltà verso di loro sia inevitabile o che l’attivismo vegan non serva. Significa che la scelta vegan richiede prima di tutto una scelta autonoma e individuale da parte della persona, e un impegno a migliorarsi dal punto di vista della consapevolezza e dell’integrità morale, e questo è certamente possibile. Non solo: le persone possono essere aiutate ad abbandonare questa mentalità (abbracciando il veganismo) anche in altri modi, facendo leva ad esempio sulla percezione della normalità e sulle influenze sociali (in favore dei diritti degli animali anziché contro).
Questo fattore, così come alcuni altri tra quelli elencati, può valere per la scelta vegan come per qualsiasi altra consapevolezza o scelta etica. La crudeltà in particolare crea un terreno fertile per tutte le ingiustizie.
Progetto dell’associazione “School of Thought International” pensato per aiutare a identificare e a mettere in evidenza i più comuni casi di logica fallace:
Ultimo aggiornamento: 31 ottobre 2024